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Il governo di Casalmaggiore


Com’era governata Casalmaggiore nei secoli di Antico regime? Quali erano gli organismi amministrativi che la reggevano e regolavano la vita politica ed economica dei suoi abitanti?
L’Archivio Comunale naturalmente possiede riguardo a questo essenziale aspetto della nostra storia una miriade di documenti, che permettono di tracciare un quadro approfondito degli antichi ordinamenti, rimasti per molti versi immutati dal XV secolo alla metà del ‘700, quando sotto i colpi del riformismo austriaco, il vecchio edificio crollò e mutarono totalmente i rapporti tra lo Stato e i tradizionali Corpi civici, secondo criteri di accentramento e di razionalizzazione.
Per dire le cose in estrema sintesi, lo Stato di Milano prima di Maria Teresa era costituito da una molteplicità di città, comunità, contadi, feudi, ceti sociali, corporazioni professionali e di mestiere, che facevano tutti capo al sovrano, avendogli direttamente giurato fedeltà e obbedienza, ma ciascuno dotato di propri caratteri e privilegi, che anche il sovrano era tenuto a riconoscere, per cui la sua autorità e il suo potere decisionale risultavano fortemente limitati e compromessi.
Era il trionfo delle oligarchie e dei particolarismi, con conseguenze disastrose per i popoli soggetti alle angherie e sopraffazioni dei potenti locali, e per la stessa funzionalità dello Stato, che non possedeva efficaci strumenti di intervento per eliminare arbitri e sperequazioni e promuovere, secondo il suo fine primario, il bene comune. Solo le provvide riforme dei sovrani asburgici permisero di passare finalmente da una struttura statuale frantumata e disorganica a uno Stato “moderno”, dotato di un sistema istituzionale, legislativo e giuridico unitario e di un apparato amministrativo centrale e periferico capace di estendere a tutti la certezza dei propri diritti e doveri e di assicurare il progresso civile.
Io tuttavia vorrei qui presentare due documenti del nostro Archivio che forniscono un quadro preciso delle strutture della nostra Comunità nel momento del trapasso tra vecchio e nuovo, quando il rinnovamento era già avviato, ma resistevano ancora le antiche forme di potere, che, a partire dal 1756, cadranno con l’innovativa Riforma al governo e amministrazione delle comunità dello Stato di Milano.
Il primo documento è l’inizio di un’amplissima relazione redatta dal cancelliere della nostra Comunità Leonardo Civeri e inviata a Milano il 19 febbraio 1751 (copia in ASCC, busta 38, fasc. 16/1). La Real Giunta del Nuovo General Censimento aveva posto a tutte le Comunità grandi e piccole, in vista della ripresa dei lavori per il catasto, 45 quesiti, a cui Casalmaggiore rispose appunto con questa relazione, che andò a confluire in una grandiosa inchiesta, tutta conservata presso l’Archivio di Stato di Milano, che offre ancor oggi un’immagine ricchissima della Lombardia del tempo. L’altra fonte cui attingiamo è una breve informativa sul Sistema antico e presentaneo del governo della città di Casalmaggiore (b. 39, fasc. 3/1), non datata e non firmata, ma riferibile al 1754, quando venne concesso il titolo di città.
Il supremo organo di governo è dunque il Consiglio generale dei 40 decurioni, i quali appartengono alle più antiche e nobili famiglie e sono i maggiori estimati del territorio, cioè i maggiori contribuenti, in quanto proprietari della massima parte dei terreni agricoli. Questa insistenza sulla ricchezza segnala l’incipiente clima “borghese”, in cui il reddito avrebbe avuto la meglio sulla nobiltà nel dare accesso alle cariche pubbliche: di lì a poco infatti si sarebbe fissato un estimo minimo di 2000 scudi (non certo tenue) per far parte dei decurioni casalaschi. Ancora a lungo tuttavia in Casalmaggiore di vera borghesia se ne sarebbe vista poca e ricchezza e potere avrebbero continuato ad essere nelle mani delle antiche classi possidenti.
I decurioni vengono dunque eletti esclusivamente entro una cerchia ristrettissima di famiglie eminenti e conservano la carica a vita; se uno muore o rinunzia, vengono presentati quattro candidati, tratti o dalla sua stessa famiglia o da quelle abilitate a governare, e i consiglieri scelgono, o meglio cooptano, il successore, inserendo una “ballotta” bianca o nera in un’urna (che è il sistema consueto per le votazioni). Il metodo assicura che solo chi appartiene alla chiusa oligarchia che detiene il potere può entrare in Consiglio.
La dignità di decurione è considerata in qualche modo appannaggio dei maggiori casati nobiliari o patrizi, ne riconosce la preminenza sociale e quindi politica, tanto che parecchi membri della stessa famiglia (legalmente non più di due, ma spesso si va ben oltre questo limite) siedono in Consiglio e un consigliere impedito può farsi sostituire da un figlio o da un fratello.
Prese piede poi un altro abuso: poiché il numero degli appartenenti alla casta che si considerava degna del decurionato non riusciva ad esprimere tutti i 40 consiglieri richiesti e si voleva impedire l’accesso di estranei, il Consiglio, con il pretesto di salvaguardarne il prestigio, andò assottigliandosi, fino a ridursi a 20-25 membri, per cui bastava l’alleanza di due o tre clan familiari per decidere tutto. Un funzionario inviato dal governo austriaco denunciava nel 1764 il fatto, attribuendolo a “quelli che hanno preteso di farne (del Consiglio) un’ereditaria privativa in pregiudizio di tutti quegli altri che in vigore delle leggi fondamentali vi hanno pari diritto”.
Il corpo dei decurioni viene periodicamente convocato dal podestà, il magistrato, di norma un giureconsulto, spesso di rango senatorio, che viene inviato da Milano a rappresentare l’autorità del principe, presiede il Consiglio e rende giustizia nel palazzo pretorio, esercitando il potere esecutivo e giurisdizionale per un periodo di due anni. Viene poi sostituito ed è soggetto a sindacato, cioè deve rendere conto del suo operato.
Il primo giorno dell’anno è dedicato ad una serie di votazioni per distribuire tra i consiglieri vari incarichi amministrativi. Innanzi tutto vengono eletti 19 decurioni, che, a gruppi di quattro per turno (tre nuovi più uno tratto dal gruppo precedente per rendere edotti i colleghi delle questioni sul tappeto), svolgono per un bimestre la funzione di deputati del governo, curando la gestione quotidiana degli affari e l’esecuzione delle delibere, in particolare firmando i mandati, perché senza loro ordine non può uscire denaro dalla pubblica tesoreria.
Quindi sono eletti tre Prefetti del patrimonio, due nuovi e uno tra i tre dell’anno precedente, confermato sempre per informare i colleghi. Essi tengono i libri dell’estimo e ripartiscono i tributi “principalmente acciò le imposte che si fanno siano giustamente distribuite”, sovrintendono all’incanto della tesoreria e dei dazi, controllano i mandati e la legittimità delle spese. I Prefetti a fine anno redigono il bilancio del debito e del credito e lo presentano per l’approvazione al Consiglio. Un decurione è nominato Conservatore degli ordini per accertare che nessun provvedimento sia contrario alle leggi della Comunità e dello Stato e che le disposizioni superiori siano regolarmente applicate.
Vengono infine assegnati ai consiglieri compiti specifici: Prefetti delle vettovaglie, preposti al rifornimento dei viveri; degli argini e delle strade; della sanità; del censimento, per l’aggiornamento dell’estimo;. degli alloggiamenti militari. Al Consiglio spetta infine ogni anno la nomina o la conferma dei salariati del Comune.
Ogni tre anni viene eletto come oratore il decurione che appare più qualificato sul piano giuridico e diplomatico. Egli risiede a Milano e ha compiti di grande responsabilità, perché esprime la voce della Comunità nella Congregazione dello Stato, un importante organo politico dove siedono i rappresentanti di tutte le città e i contadi, e tiene i rapporti con le istituzioni e gli uffici dell’amministrazione centrale.
Fu questa la classe dirigente che detenne per secoli il monopolio del potere in Casalmaggiore, una classe certamente capace, legata ai propri doveri e alle istituzioni pubbliche, ma anche, colpa forse più dei tempi che dei singoli, arroccata nella difesa dei propri privilegi e dei propri interessi, tesa soprattutto a conservare ed accrescere la proprietà fondiaria e il prestigio della famiglia, incapace di apertura e di iniziativa economica.
L’abate Romani (1757-1822), che non fu un estremista giacobino, ma fu decisamente aperto agli ideali illuministici e al misurato riformismo teresiano, ci ha lasciato di essa un ritratto che vale la pena rileggere. Nelle sue Memorie private e personali nella bella e monumentale edizione che ne ha recentemente fatto Enrico Cirani (vol. I, pp. 287-88) trovo questo passo, ricco come pochi di senso della storia e dei suoi trapassi epocali: “In tempo di mia fanciullezza i nobili nel generale erano considerati e temuti come tanti semidei; formavano una classe tanto distinta e separata dal resto della popolazione, che punto non si degnavano di accumunarsi né d’incontrare la minima relazione con individui delle classi inferiori…I loro matrimoni dovevano essere purissimi, vale a dire non contaminati da sangue ignobile…Questa razza di gente pertanto era la più orgogliosa, intollerante e sovente soverchiatrice verso gl’individui di sfera inferiore. I lumi però della vera filosofia e dell’amor sociale penetrarono alla fine nella mente e nel cuore di essi e gli esempi funesti della rivoluzione francese…fecero loro comprendere i limiti ragionevoli richiesti dalla loro particolare condizione”. Insomma era finito un mondo e tra riforme e rivoluzione, un po’ per amore e un po’ per paura anch’essi cominciarono ad aprirsi a sentimenti nuovi di maggior modestia.

Risposte di Casalmaggiore ai 45 quesiti della Giunta del Censimento, 1751.
Mobirise
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Pubblicato su "Casalmaggiore", bimestrale a cura
dell'Associazione Pro Loco di Casalmaggiore
Dicembre 2007

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