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Intermezzo tassesco


Un grande poeta, uno dei maggiori della nostra letteratura, si trovò, sia pur occasionalmente e a sua insaputa, ad incrociare il proprio destino con Casalmaggiore: parlo di Torquato Tasso.
A tale episodio, mettendo da parte i consueti temi storici, vorrei dedicare questo articolo, convinto che non potremmo trovare migliore compagnia durante le ferie natalizie del nutrimento vitale che ci viene dalla grande poesia. Senza dire che, in tempi di veline, confrontarsi con le forme di amore alto, anzi sublime, suggerite dal Tasso, può essere per tutti un utile esercizio di disintossicazione e di catarsi spirituale.
Tutti i Casalaschi interessati alle patrie lettere sanno che nel 1581 il nostro maggiore editore del ‘500, Antonio Canacci, stampò, in prima edizione completa di 20 canti (sia pure con molte lacune nel testo) e col titolo rimasto poi definitivo di Gerusalemme liberata, il grande poema tassesco, che, già terminato nel 1575, non era ancora stato pubblicato per l’incontentabile lavorio di correzione a cui lo sottoponeva l’autore, ma del quale già circolavano manoscritti e stampe molto parziali e scorrette.
Il letterato Angelo Ingegneri, veneziano d’origine ma in contatto con molte corti, capitato a Ferrara presso Alfonso II d’Este nell’inverno del 1580, ebbe la fortuna di aver tra le mani il manoscritto completo del poema e “in sei notti sole”, come racconta, lo trascrisse interamente. Ritornando poi lungo il Po a Massa dai signori Cybo, si fermò a Casalmaggiore e lo affidò al tipografo Canacci perchè lo stampasse nel più breve tempo possibile. Questi accettò il prestigioso incarico e, formata un’occasionale società con il ben più attrezzato stampatore di Parma Erasmo Viotti, portò a termine la bella edizione nel formato in 4° nel marzo 1581 (in tiratura sconosciuta), mentre nel febbraio era uscita a Parma l’edizione in 12° del Viotti (in 1300 esemplari). Di questa complessa vicenda e di questa edizione hanno trattato tutti i moderni editori della Gerusalemme e non è certo argomento da riprendere in questa sede; e neppure voglio parlare della tipografia casalasca del ‘500, sulla quale Rita Barbisotti in due Strenne dell’ADAFA di Cremona del 2000 e del 2001 ha pubblicato due saggi splendidi per rigore scientifico, per ricchezza di analisi e per l’acume interpretativo con cui è riuscita a dipanare una matassa piccola, ma con molte spine. Per notizie biografiche sul Canacci, che fu anche cancelliere e stampatore della Comunità, rinvio, oltre che al sempreverde Romani (vol. II, pp. 154ss), alla voce di Alfredo Cioni nel Dizionario biografico degli Italiani e ad un articolo di Enrico Cirani, apparso sul Bollettino Storico Cremonese del 1999, riguardante il suo incarico di rettore della Compagnia di Santo Spirito presso l’oratorio di San Rocco.
Il tema di cui vorrei occuparmi è invece la seconda e assai meno conosciuta edizione tassiana del Canacci, intitolata: Dialoghi amorosi del Sig. Torquato Tasso, nuovamente posto (sic) in luce. Al Molto Eccell. Giurecons. Il Sig. Girolamo Chiozzi, In Casalmaggiore Nella stamperia d’Antonio Canacci 1581. Evidentemente l’Ingegneri aveva trascritto in Ferrara anche altre cose tassiane e il Canacci fu pronto a farsi cedere un’altra primizia inedita, cui egli dedicò un opuscolo in 4° di sole 8 pagine, che, come scrive il Cioni, “rappresenta la maggior rarità di tutta la bibliografia tassiana: se ne conosce un solo esemplare conservato nell’Archivio civico di Parma”. Il primo a dare notizia di tale opera in epoca moderna fu Angelo Solerti, che nella sua Vita di Torquato Tasso, Torino-Roma, Loescher, 1895, p. 331, nota 1, scrisse di un “opuscoletto rarissimo, come quello che non fu mai segnalato da alcun bibliografo e del quale si trova un esemplare, unico finora, nell’Archivio Comunale di Parma”, che egli non ha visto ma gli è stato segnalato da un amico. Il Cioni ripete la notizia e aggiunge anche la marca tipografica: “una incudine spezzata da un colpo di falce con il motto Non quam diu sed quam bene”. Ritengo però che neppure il Cioni abbia visto l’opuscolo e che abbia semplicemente citato la marca del Canacci presente nell’edizione della Liberata dello stesso anno 1581. Tale marca molto bella, perchè indica nel Canacci una totale dedizione al suo lavoro e la volontà di ricercare in esso la perfezione senza risparmio di tempo, venne in seguito sostituita, nelle altre 9 edizioni che sono catalogate sotto il suo nome fino al 1584, da una marca “parlante” legata al suo cognome: un cane che guarda fisso il sole raggiante, con il motto Tal son io (o in latino Talis ego).
Il nostro opuscolo è quindi un oggetto misterioso, che neppure gli studiosi che ne parlano hanno mai avuto in mano, sfuggito alle ricerche della dott. Barbisotti e anche alle mie, sepolto, penso, in qualche insospettabile miscellanea. Esso fu tirato probabilmente in pochissime copie e circolò soprattutto in ambito locale, come fa pensare la sua esilità e la dedica al casalasco Girolamo Chiozzi, giureconsulto e autorevole decurione del consiglio comunale, ma con solidi interessi umanistici, da cui nacquero una raccolta di massime e sentenze tratte dall’Eneide (Vergilij Versus proverbiales, Vincenzo Conti, Cremona 1562) e un poemetto latino, Eridanus, stampato a Casalmaggiore, in un 4° di sole 4 pagine, dallo stesso Canacci nel 1584 e dedicato al marchese Alfonso Felice d’Avalos, allora feudatario della nostra terra. Su di lui ci informa anche il Romani, vol. X, pp. 248ss.
Per fortuna di questo fantasma editoriale noi possiamo ricostruire il contenuto, che in fondo è la cosa più importante, e che appunto vorrei qui far conoscere, non per semplice curiosità, ma perché si tratta di tre componimenti della migliore maniera tassiana e di straordinaria intensità lirica. Ad essi fa cenno il Solerti nel luogo sopra citato e quindi è possibile recuperarli ricorrendo alle edizioni critiche da lui stesso pubblicate.
La stampa del Canacci contiene infatti due dialoghi amorosi: Io qui, signor, ne vegno e Tu ch’i più chiusi affetti, editi nel vol. III (Teatro) delle Opere minori in versi di Torquato Tasso, Bologna 1895, e il madrigale Mentre nubi di sdegno, edito nel vol. V (Rime d’amore) delle medesime Opere minori, Bologna 1898. Le tre poesie videro la luce in Casalmaggiore, ma subito dopo passarono nelle Rime e prose del Tasso edite a Venezia nello stesso 1581 da Aldo Manuzio e poi nelle edizioni successive.
I due dialoghi sono inseriti nel Teatro perché vi intervengono più personaggi, quasi si trattasse di scene teatrali. Entrambi sono in settenari ed endecasillabi liberamente alternati, con frequentissime rime. Nel primo, il più articolato, di 117 versi, e di cui per mancanza di spazio posso dare solo una frettolosa sintesi, compaiono tre personaggi: Amata, Amante e Amore. Si apre con un ampio intervento dell’Amata (vv. 1-57), che, rivolgendosi ad Amore, svolge una tesi di paradossale concettismo: l’Amante le ha giurato di rinunciare in tutto alla propria volontà e di farle completo dono “del core e della mente”, come schiavo che si sottomette al suo signore; ora lei gli comanda di rivolgere ad un’altra donna il suo amore, ma lui rifiuta e tradisce così la sua promessa. Replica l’Amante (vv. 58-113) che lui è pronto ad obbedire a Madonna e a compiere le più ardue imprese, ma chiedergli di non amarla è pretendere da lui cosa impossibile e ingiusta, “che non vorrei potendo,/ e non potrei volendo”. Amore, eletto giudice, risolve la contesa, affermando perentorio che antichissima legge del suo regno è che l’amata riami.
Protagonisti del secondo dialogo sono Amante e Amore. Il primo confida che quando bacia l’Amata, questa chiude gli occhi e lui teme che ciò avvenga per un atto di rifiuto e di sdegno; Amore però lo rassicura che nell’anima vinta da amore ogni forza vitale sembra venir meno ed essa languisce di un’intima gioia che somiglia alla morte. Come potrà dunque l’Amante rivedere la luce degli occhi della donna? Seguiti a farla morire con i suoi baci, comanda Amore, perché da quella morte nascerà per lei “vita gioiosa”. Ecco il testo:
AMANTE
Tu, ch’i più chiusi affetti
Miri, spirando entro a gli accesi petti,
Sciogli i miei dubbi, Amore,
E porgi lieve refrigerio a’l core.
Qualor Madonna a le mie labbra giunge
La sua bocca soave,
Quasi il vedermi seco a lei sia grave,
Chiudendo gli occhi i suoi be’ rai m’asconde.
AMORE
Questo pensier ti punge?
Per questo si confonde,
da timor vano oppressa,
L’alma, e per questo la tua gioia cessa!
AMANTE
Il pensier che l’annoi
L’umiltà mia, di sua bellezza indegna,
Questo timor m’insegna: e turba poi
La mia letizia interna,
E m’è cagion d’un’aspra pena eterna.
AMORE
Sai che soverchia gioia
Fa che un’alma si muoia e torni in vita;
Però se la gradita
Tua Donna allor ch’i dolci baci accoglie
I suoi tremuli rai t’invola e toglie,
Ciò vien però che dolcemente langue
La sua virtute e lascia il corpo esangue,
Né dar spirto a’ begli occhi od a le membra
Vigor, più le rimembra;
Ma di gioconda morte
Fiacca languendo, gode in su le porte.
AMANTE
Dunque con qual rimedio
Potrò levarle un così fatto assedio,
A ciò che lieto miri
Il lampeggiar de’ due cortesi giri?
AMORE
Dàlle pietosamente
Morte, chè di tal morte ella è bramosa,
Che solo ha per suo fin vita gioiosa.
Il madrigale che chiude il nostro opuscolo, ha un’aerea trama musicale di 11 versi, che alternano le note acute dei settenari alle note più gravi degli endecasillabi, tutti conclusi dal punto fermo.
Lo sdegno della donna era come una nube che consentiva all’uomo di sostenere il sole dei suoi occhi, ma ora che lei corrisponde al suo amore e questi gli si mostrano in tutta la loro luce, egli rischia di essere consumato dal “gran foco”. L’amante si sente quindi costretto ad invocare una maggiore “crudeltà”, per non venire distrutto da un ardore insostenibile.
Mentre nubi di sdegno
Fra’ vostri occhi e ‘l mio core
Furo interposte, egli soffrì l’ardore.
Or che chiaro si gira
Il sol di quei bei lumi
Forz’è che si consumi
L’anima esposta a sì gran foco ignuda.
Poiché dunque può l’ira
Temprar sì ardente face
Più che pietà non face,
Siatemi, prego, per pietà più cruda.
Non sappiamo quando precisamente furono composti i tre testi, ma certo essi riflettono l’empito lirico e il confidente abbandono alla legge naturale del piacere e dell’amore che si esprime nell’Aminta, la “favola boscareccia” che, rappresentata nel 1573, per strana coincidenza venne per la prima volta impressa a Cremona nel dicembre 1580, solo pochi mesi prima dei Dialoghi canacciani, nell’officina di Cristoforo Dragoni, con dedica a Vespasiano Gonzaga duca di Sabbioneta.

Marche tipografiche di Antonio Canacci, stampatore in Casalmaggiore dal 1581 al 1584
Mobirise
Pubblicato su "Casalmaggiore", bimestrale a cura
dell'Associazione Pro Loco di Casalmaggiore
Dicembre 2009

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