free web software

Medici, malati e malattie: la questione sanitaria nell'Ottocento a Casalmaggiore


Abbiamo parlato nei due precedenti articoli [1, 2] della povertà che nell'Ottocento affliggeva buona parte della popolazione casalasca sia nel capoluogo che nelle campagne e che aveva naturalmente il suo primo riflesso nelle spaventose condizioni di vita delle classi popolari.
Abitazioni malsane e cadenti, ristrette a uno-due ambienti, buie, non ventilate, freddissime d'inverno, invase dall'umidità che cola dai tetti spesso privi di soffitto, sale dai pavimenti spesso in terre battuta o mal ammattonati, penetra dalle finestre chiuse con carta oleata più spesso che con vetri, mobili poverissimi, una pulizia quanto mai precaria, totale assenza di decenti servizi igienici.
L'alimentazione si basa sulla polenta di mais fatta con farina spesso avariata per la cattiva conservazione, poco setacciata per non perdere la crusca, poco bollita per risparmiare sulla scarsa legna, con poco sale, che è un bene prezioso, un genere di monopolio tassato pesantemente dallo Stato. In alternativa una minestra di riso o di pasta casalinga con farina e acqua, raramente uova, condita con un po' di lardo. Il companatico è formato da verdura, frutta, formaggio, raramente uova e carne, che pure potrebbero essere fornite dai polli che la massaia alleva con cura, ma per venderli al mercato e sostenere le scarse entrate domestiche.
Il vestiario è quanto mai misero e non ripara dai freddi inverni padani.
Questi temi, qui appena accennati, formarono oggetto di studi approfonditi nel corso dell'inchiesta agraria Jacini (1877-1885) e di innumerevoli altre ricerche, che nel periodo post-unitario portarono alla luce fenomeni economici e sociali del mondo popolare e contadino di straordinaria ampiezza e gravità e rivelarono l'arretratezza e il sottosviluppo, prima sottostimati o ignorati, della giovane nazione italiana. Quanto poi a far seguire alla conoscenza dei mali gli opportuni rimedi era tutt'altro discorso e anche da ciò derivava quel senso di malessere e di frustrazione che afflisse l'Italia post-risorgimentale, cosciente di dover affrontare compiti titanici con un apparato statale ed amministrativo in formazione e strumenti economici e culturali del tutto inadeguati.
Di questo complesso di problemi faceva parte anche la questione sanitaria. Lo stato miserevole delle abitazioni, la scarsa e povera alimentazione, la durezza del lavoro, le cattive condizioni igieniche generali avevano conseguenze micidiali sullo stato di salute della popolazione tutta e in particolare dei poveri.
Per trattare questo tema in riferimento al Comune di Casalmaggiore, partirei da alcuni dati complessivi. Il movimento demografico registra un tasso di mortalità elevatissimo, più che compensato tuttavia da un tasso di natalità del tutto impensabile ai nostri giorni: ad esempio, nel 1865 su una popolazione totale di 15.821 abitanti, i morti sono 440 (228 maschi e 212 femmine; 2.78%), mentre i nati sono 553 (296 maschi e 257 femmine; 3.49%). Per un confronto (su dati aggiornati al 31 dicembre gentilmente fornitimi dall'Ufficio di Stato Civile, che con le nude cifre mostrano gli abissali cambiamenti intervenuti) si può precisare che nel 2011 su una popolazione di 15.142 abitanti, i morti sono stati 148 (69 maschi e 79 femmine; 0.97%), mentre i nati sono stati 117 (57 maschi e 60 femmine; 0.77%). La mortalità colpisce nel secondo Ottocento circa un quarto dei nati da 1 a 3 anni, l'età media della vita è di 36 anni, un'indagine sul “Movimento dello stato civile pel 1877” constata che nell'intera provincia di Cremona vi sono solo 46 individui di età tra i 75 e gli 80 anni, uno solo tra i 90 e i 95 anni, nessuno di età superiore. Alla scarsa longevità il povero unisce una vita lavorativa che inizia quanto più precocemente, spesso prima dei 10 anni, comporta una fatica fisica opprimente e termina tra i 50 e i 60 anni, quando con la schiena curvata, il corpo logorato e afflitto dalle malattie, rinuncia ad ogni attività e inizia un penoso declino. A livello nazionale, a testimoniare il cattivo stato fisico della popolazione più misera, può essere interessante ricordare che alla leva militare i ventenni che venivano riformati per malattia o imperfezione fisica erano circa il 20%; inoltre l'altezza minima richiesta era di m. 1,56, ma tra il 1863 e il 1881 i giovani dichiarati per questo inabili furono circa il 12%, per cui si credette opportuno abbassare l'altezza minima a m. 1,54.

La salute dei poveri era affidata ai medici condotti (dal latino “conducere”, tanto per intenderci, in quanto assunti con stipendio per svolgere questo servizio).
Il 20 marzo 1865 venne emanata la nuova fondamentale legge n. 2258 di unificazione amministrativa, che regolava la struttura e il funzionamento degli enti locali, Comuni e Provincie, e definiva i compiti che essi erano tenuti ad assolvere con le proprie entrate. Le principali spese obbligatorie di competenza dei Comuni riguardavano l'istruzione elementare e media, escluso il triennio superiore, la viabilità interna, alcuni servizi pubblici (cimiteri, illuminazione...) e l'assistenza sanitaria assicurata gratuitamente ai poveri mediante un sistema di condotte assegnate a medici stipendiati dal Comune.
L'insegnante e il medico condotto divennero quindi figure centrali di ogni realtà municipale, dotate di particolare prestigio e autorità presso gli strati meno abbienti, perchè essi incarnavano due valori fondamentali, l'istruzione e il sapere scientifico, rimasti fin allora privilegio delle classi elevate, ma che il nuovo Stato cercava ora di rendere disponibili a tutte le classi sociali per migliorarne il livello di civiltà e di benessere. A contatto quotidiano con le miserie e l'ignoranza delle classi più umili, convinti dell'importanza civile e sociale della loro professione per la formazione di una nazione più moderna, l'insegnante e il medico apparvero, e generalmente si sentirono, gli apostoli di una religione laica di progresso, che avevano la missione da una parte di combattere idee e credenze tradizionali, legate a pregiudizi e superstizioni del passato, dall'altra di diffondere i principi di una cultura e di una scienza fondati sulla ragione e al servizio dell'uomo. Non per nulla essi costituirono i nuclei principali del pensiero e degli schieramenti politici che avanzavano le istanze più democratiche a favore dell'emancipazione e dei diritti delle classi popolari.
Anche il Comune di Casalmaggiore fu pronto a riorganizzare secondo la recente legge in tutto il suo territorio le condotte medico-chirurgiche e le condotte ostetriche, emanando in materia un Regolamento organico e disciplinare in data 28 luglio 1870, rivisto poi con delibera del 16 maggio 1882.
Teniamo conto che tutta la Lombardia si trovava in posizione d'avanguardia rispetto alle altre regioni italiane nella formazione di un efficiente servizio sanitario, perchè fin dal Settecento il governo austriaco aveva creato una rete di medici condotti, poi riordinata ed estesa sotto il Regno d'Italia napoleonico e dal Regno Lombardo-Veneto austriaco, per cui già da tempo in Casalmaggiore era garantita l'assistenza medica gratuita alle famiglie povere incluse in un elenco approvato dalla Municipalità.
Il nostro Comune venne quindi suddiviso in cinque condotte mediche e otto condotte ostetriche, affidate rispettivamente a un medico-chirurgo laureato e a un'ostetrica patentata, che operava sotto la direzione di un medico (e di cui per brevità non ci occuperemo). Vi erano tre condotte urbane estese ad alcune frazioni e due condotte solo di frazione, ognuna comprendente una popolazione pressochè uguale di circa 3000 abitanti; lo stipendio era per tutti di L. 1800 annue, pari in sostanza a quello che il Comune attribuiva ai suoi professori delle scuole superiori ginnasiali e tecniche, ed assai contenuto se si pensa che a Cremona e in altri Comuni raggiungeva le 2500-3000 all'anno (vedi la pianta organica riprodotta, relativa al Regolamento del 1882).
Il medico veniva assunto per concorso pubblico dal Comune con un contratto della durata di tre anni (poi dal 1882 di cinque), soggetto a conferma con delibera del Consiglio per altri tre (poi cinque). Al termine di questo secondo periodo di prova, egli poteva essere assunto in via definitiva. Dopo un un periodo di almeno 10 anni, o superiore, aveva diritto alla pensione nella misura di 1/40 dello stipendio per ogni anno di servizio prestato. Non poteva svolgere alcun altro lavoro.
Il medico godeva di grande prestigio sociale, ma il suo status professionale non era affatto invidiabile, per il lungo periodo di precariato, per lo stipendio tutt'altro che entusiasmante e che le Amministrazioni, sempre in difficoltà finanziarie, tendevano a comprimere al massimo, e soprattutto per i gravosi impegni e responsabilità che gli erano affidati. Si tendeva a vedere in lui più un missionario laico che un agiato professionista, e il medico-poeta Arnaldo Fusinato (che tutti ricordiamo per i versi sulla caduta di Venezia nel 1849: “Il morbo infuria, il pan ci manca...”) non aveva torto a scrivere: “Arte più misera, arte più rotta / non c'è del medico che va in condotta”. Solo con la riforma sanitaria voluta da Crispi nel 1888 avrebbe acquisito la qualifica di “ufficiale sanitario” e una maggiore autonomia rispetto alle Amministrazioni comunali.
Il Regolamento disciplinare casalasco del 1882 definiva in ben 47 articoli gli obblighi del medico: eccone una sintesi. Egli deve curare ed assistere in modo assolutamente gratuito tutti gli ammalati del suo circondario compresi in un elenco di poveri, nonché, dietro compenso, i malati non poveri. Cure gratuite spettano anche ai militari, ai detenuti, ai forestieri poveri di passaggio, ai ricoverati presso gli istituti di beneficenza cittadini. Richiesto, egli deve accorrere col suo calesse al domicilio del malato in ogni ora del giorno e della notte e prestargli le debite cure anche più volte al giorno. Ai tre medici urbani compete, alternandosi ciascuno ogni 4 mesi, l'assistenza dei malati del civico ospedale, dove il personale sanitario è composto unicamente da un direttore e dal medico condotto che pro-tempore lo affianca. Deve eseguire anche operazioni di “bassa chirurgia” come salassi ed estrazioni di denti e se occorre effettuare un consulto o un intervento chirurgico presso il domicilio di un malato povero, il medico competente può chiedere l'aiuto di un collega, che è tenuto a prestarsi gratuitamente. Dovranno i medici condotti denunciare immediatamente l'insorgere di malattie epidemiche o contagiose e dietro invito della Giunta comunale visitare i malati cronici, i tignosi, gli scabbiosi, i sifilitici. Dovranno effettuare la vaccinazione antivaiolosa ai bambini entro i primi sei mesi di vita e, se necessario, la rivaccinazione. I medici non possono allontanarsi dalla condotta senza indicare il loro recapito, né assentarsi per più di un giorno senza farsi surrogare da altro medico convenuto col Comune e da loro compensato per la sostituzione. In caso invece di malattia del titolare, il Comune provvede alla supplenza. La prescrizione delle medicine dovrà essere la più utile al malato, ma cercando di contenerne al massimo i costi, perchè queste restano a carico del povero. I medici rilasciano gratuitamente qualunque certificato richiesto, compreso quello di morte e di sepoltura. Ogni caso di malattia, di ferimento, di morte, di parto in cui sorge sospetto di reato va denunciato all'autorità giudiziaria. Ad essi spetta la vigilanza sull'osservanza delle norme igieniche e sanitarie in qualunque esercizio pubblico o abitazione privata, nonché in vie, piazze, mercati..., con denuncia dei contravventori. Infine il medico è tenuto al termine di ogni trimestre a trasmettere al sindaco un rapporto statistico sullo stato sanitario del circondario di sua competenza, in base al quale il sindaco relaziona al sotto-Prefetto presente in Casalmaggiore.

Il nostro Archivio conserva la serie completa di tali relazioni limitatamente al periodo che va dal primo trimestre 1871 al quarto trimestre 1884. Esse vennero redatte dai cinque medici condotti casalesi, che, a parte uno, rimasero in quegli anni sempre gli stessi: i dottori Paolo Beduschi, Vincenzo Contini, Carlo Marcheselli, Giuseppe Mosca e Luigi Pini, poi sostituito da Enrico Poli.
Le relazioni si presentano in forma assai schematica e quindi non offrono molti dati elaborati; tuttavia è possibile trarre da esse qualche indicazione. Il numero dei malati curati è sempre alquanto elevato e in ogni condotta si aggira intorno a 200-400 ogni trimestre; le malattie acute riguardano in genere l'apparato respiratorio e digestivo: bronchiti, pneumoniti, pleuriti, tosse catarrale, gastriti, febbri reumatiche e tifoidee, artriti, dissenteria..., oltre alle consuete malattie esantematiche dei bambini: varicella, rosolia, scarlattina...Una specifica domanda chiede ai medici di avanzare proposte per migliorare la sanità pubblica, e la risposta costante è che il primo provvedimento sarebbe quello di diminuire la miseria, principale causa della debolezza fisica e dell'insorgere dei malanni, ma si invoca anche una maggiore pulizia della persona e dell'ambiente e il rispetto delle più elementari norme igieniche. Un'altra domanda riguarda le malattie endemiche e qui viene sempre denunciata la pellagra, che si acutizza specialmente in primavera. Di essa si ricordano i numerosi casi presenti nel nostro territorio (circa 500 nel 1880) e le gravi patologie fisiche e psichiche che determina, ma si resta del tutto nel vago nell'indicarne gli agenti eziologici. Infatti si esclude che essa si trasmetta per contagio e viene correttamente ricondotta alla dieta quasi esclusivamente maidica praticata dai contadini e dagli strati popolari in genere, ma alcuni medici ne fanno risalire la causa al mais per se stesso, altri al mais in quanto veniva consumato avariato e mal stagionato. In realtà era lo stato delle conoscenze scientifiche che impediva di formulare diagnosi meno approssimative, perchè solo negli anni '30 del '900 si sarebbe scoperta l'esistenza delle vitamine come componenti essenziali dell'alimentazione, tra le quali una indispensabile all'organismo risultava del tutto assente nel mais, con il conseguente insorgere della pellagra (e per questo fu chiamata vitamina PP, pellagra preventing).
Si chiede poi se nel Comune siano insorte malattie epidemiche o contagiose, con risposta negativa in tutto il periodo, a parte qualche caso di difterite (non si parla mai della tubercolosi che pure era ampiamente diffusa, ma che forse veniva implicitamente nominata tra le altre malattie polmonari). Ma nell'estate del 1884 tutti i medici levano alto il loro allarme per la presenza della malattia infettiva più temuta e terribile: il cholera morbus.
Endemico nei paesi asiatici, e in particolare nel Bengala, il colera aveva fatto la sua prima comparsa in Europa nel 1817 e da allora si era rinnovato nelle popolazioni il terrore irrazionale che per secoli aveva provocato la peste, con caccia all'untore, sospetti di veleni sparsi ad arte perfino dai medici o dal governo, superstizioso ricorso a impiastri, esorcismi, immagini benedette... Proprio come la peste infatti il colera scoppiava all'improvviso e senza apparenti motivi in ondate epidemiche di straordinaria violenza, che colpivano vasti territori e un numero impressionante di individui, con fortissimi dolori intestinali, vomito e diarrea fino alla completa disidratazione e, in gran parte dei casi, alla morte. Si calcola che in Italia il colera abbia provocato nell'Ottocento circa 700.000 vittime. La terribile paura che il morbo suscitava era dovuta anche alla sua natura misteriosa e incontrollabile, in quanto rimanevano sconosciute le cause, le possibili misure preventive, le terapie e pure i medici si muovevano nel buio, intervenivano secondo pratica e buon senso, ma senza alcuna vera cognizione scientifica, perchè solo nel 1883 il medico tedesco Robert Koch, che nel 1882 aveva già scoperto il bacillo della tubercolosi, che da lui prese il nome, aprendo la strada alla ricerca di efficaci sistemi terapeutici, isolò in Egitto nell'intestino dei malati e nell'acqua che essi bevevano il batterio vero agente patogeno dell'infezione, il vibrione del colera.
In Italia l'epidemia colerosa, a parte la minaccia sempre incombente, con conseguenti effetti di psicosi e di panico, imperversò nelle forme più gravi nel 1835-37, nel 1855-56, nel 1865-67, nel 1884-86, periodi in cui toccò anche Casalmaggiore, per poi attenuarsi e scomparire almeno nell'Italia settentrionale, mentre nel Meridione, e specialmente in una città particolarmente esposta come Napoli, ebbe a manifestarsi anche nel '900.
I rapporti trimestrali dei medici condotti denunciano nell'estate del 1884 l'insorgere della epidemia e il sindaco riferisce senza particolare enfasi che “vi furono alcuni casi di cholera asiatico, dei quali parecchi seguiti da morte”. Si sono messe in atto tutte le misure consuete (isolamento dei malati e delle loro famiglie, con l'allestimento di un lazzaretto e di quarantene nel cosiddetto “Baraccone”, che il Comune ha preso in affitto, reiterate disinfezioni con suffumigi di sale e acido solforico, “adustioni” di tutti gli oggetti infetti), anche se con qualche scetticismo “per la ragione che nessuno conosce la malignità della malattia e i vantaggi dei consigli igienici”, dichiara il dott. Beduschi, che suggerisce più radicali rimedi: “il miglioramento delle abitazioni assai umide, strette, mancanti di aria e luce” e delle acque potabili “assai corrotte come si ebbe a verificare sempre”.
In effetti già da molti anni la medicina aveva preso coscienza che il colera colpiva più duramente dove peggiori erano le condizioni igienico-sanitarie e quindi mieteva le sue vittime soprattutto tra i poveri e nei centri abitati con reti idriche e fognarie o assenti, com'era il caso più frequente, o mal funzionanti.
Su questo piano Casalmaggiore si trovava nell'Ottocento in uno stato di grave arretratezza. Sappiamo che un sistema idrico e fognario veramente efficiente e moderno fu realizzato solo negli anni '30 del '900 per volontà del podestà Carnevali, ancor oggi ricordato per quest'opera meritoria. Prima di allora le fognature, costituite da condotte sotterranee mal collegate tra loro, servivano solo per lo smaltimento delle acque pluviali, mentre i liquami venivano raccolti in cisterne e pozzi neri poi periodicamente spurgati e tutt'altro che impermeabili, che quindi rappresentavano un gravissimo fattore d'inquinamento del suolo ed anche della falda acquifera. La conseguenza era che l'acqua potabile, attinta dai pozzi privati di cui erano dotate le abitazioni rurali e dai pozzi pubblici che rifornivano la rete idrica cittadina, risultava spesso fortemente infetta.
Mi scuso della citazione piuttosto lunga e maleolente, ma delinea bene la situazione una circolare emanata dal sindaco dott. Braga il 3 luglio 1884: “In presenza del pericolo di una invasione del colera”, egli raccomanda di “chiudere i pozzi con acque cattive, costruire latrine in località adatte, trasportare i letamai lontano dagli abitati...che i cessi immettano in appositi pozzi neri in maniera da impedire trapelamenti ed esalazioni nocive...che le fogne ed i pozzi neri siano stabiliti a distanza non minore almeno di 4 metri dai pozzi di acqua viva; che le operazioni di spurgo delle fogne, pozzi neri, latrine e il trasporto di letame siano eseguiti nelle ore notturne”...
Altre notizie si ricavano dal “Rendiconto morale dell'esercizio amministrativo 1884”, una relazione che ogni anno accompagnava la presentazione del conto consuntivo. Il sindaco Braga informa che si sono verificati “pochissimi casi di colera soltanto in città, in Fossacaprara e in Rivarolo” (e per il 1885 dichiarerà che “il nostro Comune ne [dal colera] rimase fortunatamente immune”, mentre, possiamo ricordare, nei due anni la provincia di Cremona ebbe 329 infetti e 207 morti), ma sottolinea anche che “l'igiene pubblica in generale lascia molto a desiderare nel capoluogo e nelle singole frazioni. Molte case e specialmente le abitate dai poveri difettano d'aria e di luce, di pozzi neri e di acquai...in parecchie la nettezza è affatto sconosciuta, quasi tutte le acque dei pozzi sono inquinate”.
Anche le precedenti epidemie di colera avvenute nel nostro territorio rimangono almeno sommariamente documentate. Per il 1836 si conserva un regolamento inviato alle autorità e ai medici dal governatore austriaco di Milano con minute disposizioni per prevenire e curare il contagio. Il “Rendiconto morale” per il 1867 ricorda che, anche se si riuscì a circoscriverlo, il flagello asiatico del colera colpì quell'anno 29 persone, delle quali 19 soccombettero. Su questo tragico evento ci è rimasta anche un'ampia relazione del medico condotto di Rivarolo del Re, il dott. Vincenzo Contini, responsabile anche della frazione di Villanova, dove il morbo infierì con particolare violenza, contagiando 24 persone, delle quali 16 perirono. La relazione (di ben 87 pagine e che purtroppo non posso qui esaminare nei dettagli) venne edita a stampa a Casalmaggiore nel 1868 col titolo “Il cholera di Villanova” e ci mostra in modo quasi drammatico gli sforzi che un medico coscienzioso ed esperto come il Contini compie invano per raccapezzarsi di fronte a un male che la sua scienza non può interpretare, ma che, a suo parere, dipende più che dal contagio dalla povertà e dall'esposizione dei corpi, indeboliti da fatiche e malanni, ad esalazioni di acque stagnanti, di letame e altre materie putride, dal degrado igienico e ambientale. Per questo egli, come in genere i medici più sensibili ai problemi sociali, ritiene che il morbo si scateni dove trova condizioni di maggior miseria, e che quindi più che a lazzaretti e suffumigi il governo dovrebbe pensare ad assicurare lavoro e cibo decente al povero, perchè solo organismi più forti e resistenti potranno contrastare la malattia.
La testimonianza più commovente sul colera a Casalmaggiore, in relazione all'epidemia del 1855-56, che fu la più grave e col maggior numero di morti in Italia, è quella affidata a una documentazione affatto particolare, le lapidi cimiteriali che i parenti fecero apporre sulle tombe dei loro cari stroncati dal terribile male designato non solo come “cholera”, ma anche con perifrasi che, pronunciate con un brivido di sgomento e di orrore, ne indicano l'origine esotica e misteriosa: “indico morbo”, “asiatica lue”, “gangetico morbo”, “furente, indomita asiatica lue”. Sono otto le iscrizioni che ricordano il colera come causa della morte conservate nel nostro Archivio, ma ciò non ha alcun valore statistico riguardo al totale delle vittime , perchè solo le famiglie più benestanti, dopo aver comunicato e fatto approvare dalla Municipalità il testo della lapide, la collocavano sulle tombe poste lungo il muro di cinta del cimitero, mentre i defunti inumati nello spazio centrale recavano solo il nome e la data di nascita e morte. Esse tuttavia attestano che il colera, pur colpendo in modo assolutamente prevalente i poveri, non risparmiava neppure le classi elevate. Troviamo infatti tra i defunti un sacerdote, un dottore in legge, un magistrato...E non mancano i giovani, compianti con parole che ancora si leggono con emozione:
“Riposa in pace /o Vittoria Cipelletti /La tua memoria /starà vivamente scolpita /nel cuor doloroso /de' tuoi genitori e fratelli /perchè la tua bontà /era ad essi un tesoro /E non dovevi morire /appena di 22 anni /ahi crudelmente straziata /dal cholera asiatico /18 Agosto 1855”.

Archivio Storico Comunale di Casalmaggiore, parte moderna, Sanità, b. 175
Mobirise
Pubblicato su "Casalmaggiore", bimestrale a cura
dell'Associazione Pro Loco di Casalmaggiore
Febbraio 2012

Scarica il documento pdf