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Spoon River in riva al Po: storie di vita narrate da voci lontane


L'editto napoleonico di Saint-Cloud del 1804, esteso all'Italia nel 1806, segna, come ricordavamo nel precedente articolo, l'inizio della moderna legislazione di polizia mortuaria giunta sostanzialmente immutata fino ad oggi. Essa riconduceva sotto il pieno potere e controllo dello Stato le pratiche funebri, sottraendole alla Chiesa che per secoli le aveva ispirate e regolate.
L'editto faceva dei cimiteri delle istituzioni pubbliche per le quali lo Stato dettava una normativa uniforme, affidandone poi la concreta attuazione ai Comuni, che erano obbligati entro due anni (ma i tempi spesso si dilatarono, e di parecchio, per mancanza di fondi) a costruire nuovi cimiteri lontani dall'abitato, sgombrando all'interno e all'esterno tutti gli edifici religiosi, ordinati secondo criteri rigorosamente razionali, e a curarne poi la gestione e la manutenzione: il tutto naturalmente a carico dei bilanci comunali, perchè lo Stato, allora come adesso, era bravissimo a prescrivere obblighi e a delegare gli oneri.
Le norme sui cimiteri vennero organicamente definite con il decreto del Regno d'Italia del 3 gennaio 1811: essi dovevano essere circondati da muri alti almeno metri 2,40 e avere un'ampiezza, calcolata in base alla media dei defunti del luogo, tale da consentirne la sepoltura per un periodo di almeno dieci anni. Lo spazio interno era tutto riservato alle fosse disposte in file orizzontali, profonde m. 1,80 e alla distanza di cm. 15 l'una dall'altra. I defunti venivano inumati man mano l'uno dopo l'altro fino al completamento della fila, per poi passare alla successiva. Dopo dieci anni i cadaveri venivano esumati, partendo dall'inizio, i resti venivano deposti nell'ossario e si riprendeva da capo il ciclo delle sepolture. Mi scuso di questi particolari “tecnici”, che però servono a dimostrare il perfetto “esprit de géométrie”, così lontano dal pressappochismo dell'Antico regime (e magari anche di oggi) che ispirava la legislazione napoleonica (anche se poi dal dire al fare la distanza era grande).
Sottesi però a queste minute disposizioni erano due fondamentali principi: parificare secondo una logica rigorosamente egualitaria, si direbbe meglio democratica, tutti i defunti, eliminando dalle tombe ogni distinzione di carattere sociale ed economico, e nello stesso tempo assicurare a ciascuno una sepoltura individuale dignitosa, che ne conservava il nome e la memoria con una croce o una piccola lapide posta sopra la fossa. Venivano in questo modo superate tanto le precedenti consuetudini ecclesiastiche, che riservano ai ricchi e potenti uno splendido sepolcro e ai poveri l'orrore delle fosse comuni, quanto l'astratto rigore ideologico del periodo rivoluzionario, che considerava il cadavere pura materia da distruggere.
L'ansia tuttavia dell'individuo di sopravvivere oltre la morte o, secondo le dottrine religiose, con la sua anima immortale destinata ad un premio o a un castigo eterni, o lasciando “un'eredità d'affetti” che lo faccia idealmente durare nel ricordo dei parenti e della sua comunità, è un'esigenza che appartiene alla natura profonda dell'uomo, che accomuna credenti e non credenti. Nello stesso tempo la morte ha sempre presso tutti i popoli un carattere di sacralità, che ispira il culto dei defunti, il bisogno di compensare il dolore della perdita nutrendo nell'animo l'immagine della persona cara e onorandola con riti e monumenti funebri che ne impediscano il totale annullamento, tenendone in vita almeno la memoria e l'esempio. E infatti a questa primaria funzione di ricordare e insieme di ammonire ci riporta la stessa etimologia latina della parola monumento, che unisce memini e moneo.
Anche nella società borghese ottocentesca, pur fondata su valori razionali ed utilitaristici, la tomba conserva dunque tutto il suo significato ideale e simbolico e alimenta una pietas, una religione privata e pubblica dei sepolcri dei cui caratteri e manifestazioni ho già discusso nel precedente articolo e che nel carme foscoliano ha la sua espressione esemplare.
Queste esigenze e sentimenti trovavano riconoscimento anche nella legislazione napoleonica, che ammetteva la possibilità di “erigere dei monumenti sepolcrali, ed anche dei sepolcri di famiglie in celle particolari, le quali siano collocate lungo il muro del cimiterio” per non restringere lo spazio riservato alle fosse. Ma essa si proponeva anche altri due fini: temperare il rigido egualitarismo, riconoscendo almeno in parte le ineliminabili differenze esistenti nella società, e insieme ottenere un utile economico necessario al funzionamento dei cimiteri. Infatti almeno nei primi decenni del secolo a volere un monumento per i loro defunti erano in particolare le famiglie più agiate e colte (anche perchè in una società composta per la massima parte da analfabeti la “morte scritta” era privilegio di pochi) e quindi ad esse si richiese il versamento di una tassa elevata, in qualche modo una “tassa sulla vanità”, che permise ai Comuni di sostenere le spese per la cura dei cimiteri e per dare sepoltura gratuita ai meno abbienti. In seguito però l'iscrizione divenne un tributo d'onore verso il defunto, che, pur minoritario, si diffuse tra tutte le classi sociali.
Il permesso di collocare un'epigrafe funebre sul muro perimetrale doveva essere richiesto alla giunta municipale, allegandone anche il testo, che veniva sottoposto ad approvazione per evitare che contenesse qualcosa di sconveniente dal punto di vista morale e religioso, ma anche politico e legale (nonché, spesso, grammaticale, come mostrano le frequenti correzioni dei censori). Grazie a questa norma il nostro Archivio comunale ha quindi conservato una consistente raccolta di circa 200 epitaffi, contenuti nelle cartelle 48 (anni 1817-1869), 49 (anni 1870-1887), 50 (anni 1888-1897), che ci permettono di cogliere come gli uomini dell'Ottocento concepirono e vissero il sentimento della morte e il rapporto con i loro defunti. Più che un discorso teorico generale penso sia più utile a questo fine presentare esempi concreti riguardanti persone e situazioni rappresentative di tutta la società casalasca del XIX secolo. Devo avvertire che non intendo assolutamente compiere uno studio prosopografico, per cui non tratterò, se non per cenni indispensabili, la biografia dei personaggi citati; inoltre le epigrafi non verranno trascritte per intero, ma solo nei passi di maggior interesse, eliminando i frequenti “a capo” propri dello stile lapidario e normalizzando all'uso corrente le maiuscole e la punteggiatura.
Le iscrizioni più numerose si riferiscono ovviamente a uomini e donne che hanno dedicato la loro esistenza agli affetti familiari e alle virtù domestiche.

Clara Pellizzoni pose al marito questa lapide: “Quindici fratelli, sopravvissuti al decesso del proprio padre Lodovico Zuccari che moriva d'anni 70 ai 12 dicembre 1834 ,implorano eterna pace alla cara memoria di così affettuoso genitore che seppe col suo scarso censo tutti convenientemente far istruire e collocare”.

Giovanni Valenti nel 1868 scrive per la moglie Edvige Cavalcabò, rivolgendosi direttamente a lei in seconda persona, come spesso accade con forte effetto patetico: “Sposa mia dolcissima, esempio raro d'ogni domestica virtù, come io inconsolabile d'averti perduta nel fiore de' tuoi 33 anni consolerò i sei figlioletti nostri che di te mi chiedono sempre con gli occhi in lacrime?”.

Augusto Seveso, professore e direttore del Ginnasio, ricorda nel 1868 la moglie Lucia Mescoli: “che a senno e fermezza virile univa della donna il delicato sentire e pia, operosa, cortese, castissima tenera soccorritrice degli sventurati, vivente solo dell'affetto al marito ed all'unica figlia Costanzina”.

Una madre muore di parto insieme alle due nate: questo dramma dolorosissimo e purtroppo assai frequente in tempi in cui la mortalità infantile riguardava almeno 1/4 dei nati, piange Giuseppe Borella nel 1835: “Qui colle sue gemelle riposa in pace Maria Gherardi Borella...di coniugale di materno amore specchio rifulse. Ahi per un parto micidiale nel fiore degli anni da tutti compianta allo sposo ai figli fu tolta”.

Così Ettore Federici piange la moglie Rosa Aschieri: “Modello di virtù casalinghe il 3 novembre 1894 ventottenne appena la vita finiva nel darla al suo Cornelio Tacito, che pochi giorni appresso la abbracciò nel sepolcro”.

A tre anni muore invece nel giugno 1863 il figlio di Leandro Comola, a lungo consigliere e assessore comunale di forti spiriti risorgimentali: “Leandro Comola e Rosa Contini hanno qui deposto il carissimo loro angioletto Garibaldi, rapitogli allora che con l'ingegno e con l'indole generosa prometteva di portare alteramente il nome del massimo degl'Italiani”.

Di nuovo il Comola è colpito dal lutto per il figlio Abelardo, morto appena ventisettenne di tifo: “gentile, amoroso, modesto, soave, umile sebben ricco, gioia della famiglia, onor del Paese, speranza della Patria...rapito all'amore di tutti e a quello ancor più forte e inconsolabile di gentil promessa sposa”.

Il padre Andrea Radini ricorda la figlia: “Casalesi donzelle deh! confortate di fiori il troppo giovin riposo della vostra compagna Adele Radini. Essa come voi palpitava d'amore e di speranza...ma morte del funebre velo coperse sua fronte quando forse prossimo imeneo l'avrebbe cinta di rose”.  “Come due colombe in un sol nido quivi riposano Lucia e Costanza sorelle Carnevali, che spente immature per fiero morbo, l'una non ancora ventenne nel 23 novembre 1846, quattordicenne l'altra il il 20 dicembre 1848 d'ogni loro delizia deserti lasciarono i genitori”.

I genitori ing. Luigi Braga e Emma Zanibelli nel 1882: “O dilettissimi figli, mentre ascendevate floridi il quarto lustro della vita, avendo tu Giuseppe compiuto il corso liceale e tu Ernesto il primo corso di agronomia, alla nostra speranza vi rapiva morte crudele inopinata”. Il genitore Paradiso piange il figlio Soliani Eliseo strappatogli a 15 anni “mentre erasi consacrato agli studi tecnici nell'Istituto di Parma”.

Un'altra nutrita serie di epitaffi è dedicata a coloro che, a vario livello, dal più modesto a quello di grande prestigio, esercitarono la loro professione con onestà, laboriosità, ingegno a vantaggio della famiglia e della società.

Nel 1866 le figlie ricordano il padre “Giuseppe Ghislina esperto e savio commerciante”.

Di nuovo Leandro Comola si rivolge nel 1866 al padre Giuseppe: “Perchè buon cittadino e onorato mercante, perchè gli onesti guadagni hai diviso col miserabile in tempi di pubblica calamitade i tuoi cittadini sempre ti ricorderanno”.

Carlo Vezzoni muore a 74 anni nel 1857 e i suoi ne tracciano un vigoroso ritratto: “Venuto con l'industria e la probità di umle in agiata condizione di vita non lasciossi vincere da orgoglio e consolato di molta prole la volle come riverente al paterno imperio, così educata al civile consorzio”.

Meno fortunato Sebastiano Radini “negoziante leale, industre, onoratissimo, il quale morendo la mattina del 25 novembre 1855, se non lasciò alla moglie a ai figli un lauto censo e un'arca ricolma, legò esempio solenne di onestissima vita”.

E' del 1875 l'epigrafe: “A Zuccari Gaspare, sposo affettuoso, padre amorevole, già soldato e marinaio benemerito, commerciante onesto, irreprensibile, cittadino integerrimo”.

La lezione di Dante (sempre attuale, soprattutto oggi) rende saggio Daniele Farina di Casalbellotto, il quale “esercitando con rara attività piccoli commerci arricchì onestamente...e serbando nella mutata fortuna semplicità e modestia diede opportuno esempio alla gente nuova di non inorgoglire né passare la misura per i subiti guadagni”.

Scompare a 58 anni nel 1840 “Cesare Canuti falegname industre, peritissimo, eccellente intagliatore, sobrio, modesto, pio” e i figli mestissimi piangono “Francesco Archenti capomastro morto ne' 56 anni il 17 luglio 1851”.

Nel 1880 muore Demetrio Aroldi “tipografo onesto laborioso, cittadino onorato”, presto seguito nel 1883, a soli 29 anni, dal figlio Luigi “succeduto al padre nell'assiduo tipografico lavoro e nelle virtù domestiche e cittadine”.

I figli piangono nel 1883 “Passeri Giovanni fattore di Casa Longari-Ponzone...fedele, integerrimo coi padroni, pieno di carità nei poveri”.

Piuttosto singolare il caso di Beaumont Eugenio: “marmista di Bordeaux venne in Italia nel 1859 sergente furiere nell'Armata francese; profligate le milizie austriache stabilì la sua dimora in Casalmaggiore”, si sposò ed esercitò la sua professione fino alla morte nel 1886, come dimostrano le numerose epigrafi funebri da lui incise.

Le donne raramente lavorano, ma del 1860 è la lapide di “Maria Archenti, che giovinetta come dozzinante nel patrio orfanotrofio, ne fu poi Direttrice a 25 anni. Indarno più volte la chiamo alle sue fatue nozze il mondo: innamorata della solitudine, tutta candore di modestia, religiosa per sentimento non per vanità, pazientissima, rese lo spirito al Buon Dio...abbracciata dalle sue orfane e compagne, che ancora la piangono e chiamano Madre”.

Nel 1874 si spegne “Maria Masini Mainoldi, abile levatrice al servizio di questa Comunità per anni quarantaquattro continui” e nel 1893 Ghelfi Angelo “dopo di aver speso gran parte di sua vita nel servire con fedeltà il Comune come cantoniere stradale e custode di questo cimitero”.

Nel 1844 la famiglia ricorda Francesco Antonio Molossi “direttore zelantissimo per lustri nove degli Orfanotrofi di questa città”.

“Onesto farmacista e integerrimo consigliere comunale” è detto nel 1865 Giovanni Valenti.

Una vera biografia è tracciata nella lunga epigrafe dedicata “Al dottore in Legge Giovanni Amadini nato nel 1788 morto nel 1862, che di nobile ingegno adorno con molta lode” si laureò a Bologna e “meritò di essere anzi l'età prescritta eletto pubblico notaio”, nonchè assessore municipale e segretario dei Luoghi Pii: “fu modello di cittadine virtù, operoso, integerrimo, pio, condusse agiata tranquilla vita e in tardi anni da giusto moriva”.

Seguendo un percorso comune a molti, in gioventù patrioti risorgimentali, poi rispettati professionisti, condusse una vita saggia e onorata il medico Angelo Cavalli “in prima nelle patrie battaglie, poi nelle difficili cure d'Ippocrate”.

A un altro medico è dedicata l'iscrizione sicuramente più gonfia di arcaismi e di pesante retorica, a Paolo Braga, che morì nel 1868 “tredicilustre e quattrenne” (a 69 anni), “redimito di laurea in gemina medicina” (cioè medico-chirurgo), “alieno da ignobili gare” (frequenti in passato tra medici) “e sol dedito a sapienza , ad onor di sé e conforto degli egri, esercitò l'arte esculapica, benemerito direttore del nosocomio, da esso reso più acconcio e saluberrimo”.

Spiccano due ingegneri che alle grandi qualità professionali unirono elevate doti intellettuali e impegno civile. Giovanni Montani (1784-1865) fu anche “profondo matematico ed idraulico, promotore solerte ed attivo cooperatore nei lavori di pubblica utilità e decoro, amante delle arti belle e de' studi sublimi, di patrio affetto e d'Italiana libertà fervidamente animato coprì onorifiche cariche, ai pubblici sacrificando i privati interessi”.

Autore di interessanti studi tecnici e storici, Giulio Cesare Padova (1807-1870), a lungo ingegnere architetto del Comune di Casalmaggiore e “non infinto patriota”, nella sua epigrafe si rammarica soprattutto di aver mancato la sua aspirazione più alta: “devoto alle classiche muse da lui onorate con poetici saggi, che in men contrari eventi sarebbero stati forse molti e più squisiti”.

Varie epigrafi ricordano maestri e professori delle scuole locali, naturalmente tutti di elevata cultura e dediti al loro nobile e faticoso ufficio; scelgo come esemplare quella del Cavaliere Giuseppe Aldeghi scomparso nel 1888 “di scienze e lettere cultore, versatissimo nell'ellenica lingua, che trasfuse ai discepoli mai disgiunta da patriottici sentimenti...sino dal 1837 qui professore, indi emerito direttore degli Istituti Ginnasiale Liceale e Tecnico, virtuoso, modesto, energico”.

Val la pena ricordare anche alcuni cultori di musica, che testimoniano una tradizione cittadina non scomparsa: del sacerdote Giuseppe Boina non si ricordano le virtù cristiane, ma che fu “assunto maestro del coro di questa Abaziale e delle sacre melodie non volgare interprete”; Belletti Marco, che muore di tisi nel 1869, fu “valente maestro di scuola elementare, squisito suonatore di bombardino, bravo uffiziale della Guardia nazionale”; Paolo Fantini muore a 68 anni nel 1873 “impiegato ai Luoghi Pii, dolcissimo toccatore di cetra”; Giuseppe Mazzini visse fino al 1890 “nella istruzione della gioventù e nella coltura dell'arte musicale”.

Non mancano tragici casi di incidenti sul lavoro. Il più drammatico è quello di Carlo Rosa, che “a ottantun anni, povero muratore, faticava nei fondamenti di una casa e sepolto sotto un cumulo di terra e di rottame vi morì il 2 giugno 1871 vittima onorata dell'indigenza e del lavoro”. Suona quasi come atto di denuncia la lapide che i genitori pongono per il figlio Madesani Giuseppe di 18 anni, morto “nel demolire una casa del Signor Mina Giuseppe”. Si ricordano diversi giovani periti nelle acque del Po, ma colpiscono soprattutto certi feroci delitti. Il sacerdote Luigi Cavalli chiede nel 1840 di porre una lapide per il padre nel punto dove questi fu ucciso: “Carlo Cavalli da mano crudele con sedici ferite fu qui tolto di vita”. Grandi Sante, “uomo amato nel paese, utile alla società, di svegliato ingegno”, muore a 44 anni nel 1872 “da barbara mano colpito con cruento ferro, martoriato da 44 mortali ferite fra i più crudi spasimi al suol languente”. Anche Francesco Furini a soli 23 anni nel 1879 cade “percosso proditoriamente con bastone al cerebro anteriore”.

Non mancano gli intellettuali segnalati anche nelle patrie lettere, come il noto, per quanto modestissimo storico canonico Antonio Barili, che, morendo l'11 gennaio 1826, lascia un epitaffio scritto da lui stesso in lineare latino e originalmente concepito. Egli infatti chiede che la sua tomba sia posta nel pilastro d'ingresso del cimitero, proprio di fronte a quella del canonico Alberto Baccanti, morto nel 1805, che lo aveva preceduto come custode della locale Colonia arcadica. All'amico il Barili, quasi a voler proseguire per l'eternità il colloquio sugli amati temi letterari che li avevano uniti in vita, si rivolge direttamente con queste parole: “Ave Baccanti Narcetes. Successor tuus Barilius heic prope est: Coloniam Eridaniam scite tutavit laudem aevumque tuum aemulatus” (“Ave Baccanti Narcete (il suo nome in Arcadia). Il tuo successore Barili è qui vicino: sapientemente custodì la Colonia Eridania, sforzandosi di eguagliare la tua lode e la tua vita”).

Adele Mortara Racheli, sposa di Antonio Racheli, autore delle ampie Memorie storiche di Sabbioneta edite nel 1849, chiede di collocare una degna epigrafe per il padre Antonio Enrico Mortara, noto filologo e bibliofilo al quale è dedicata la nostra Biblioteca civica, morto a 68 anni il 14 maggio 1860, ricordandolo, in forma invero piuttosto involuta, come “Cavaliere dell'Ordine Ellenico del Salvatore, che di forte e perspicace ingegno onde a culto della Patria e del bello idioma meritò l'onta della tirannide straniera (si riferisce alle persecuzioni subite dal governo austriaco come cospiratore e patriota) e di tutte le Accademie italiane l'onore di filologo distinto”.

Figura di grande rilievo nella società casalese della Restaurazione è per le sue molte qualità Stefano Crema, che muore a 54 anni nel 1834: “giureconsulto acutissimo, delle italiane Lettere cultore, arcade e Tiberino accademico, del Casalmaggiorense Municipio preside (cioè podestà) integerrimo laboriosissimo, a niuno secondo”.

Benemeriti per le loro opere di beneficenza e di civica filantropia sono alcuni cittadini: ad esempio Cristoforo Pelizzoni, che assegna un legato di tre letti alla Casa di Ricovero nel 1859 o Antonio Maria Molossi, che nel 1870 “lascia unico erede del suo ricco patrimonio l'Ospitale di Casalmaggiore” o Luigi Chiozzi, che “legò tutto il suo censo a fondare in Patria un asilo per i figli degli indigenti fino a 7 anni e poscia soccorso ad apprendere un mestiere”: di lui, del sacerdote Paolo Marcheselli “che sempre all'altrui bene il proprio sacrificando...eresse nel 1854 la Casa di Rifugio, quella di Provvidenza nel 1866”, morendo poco dopo, il 7 giugno 1869, e di molti altri benefattori mi sono già ampiamente interessato nel volume Casalmaggiore risorgimentale, edito nel 2011, e ad esso mi permetto di rinviare.

Dopo l'Unità molte epigrafi sono dedicate ai patrioti partecipi delle imprese risorgimentali. Ne ricordo alcuni: Ippolito Fantini “combattè a Roma per la libertà nel 1848”; Uccelli Giulio: “Italia lo vide fra i suoi prodi nel 1848-49 e 1859-60”; Angelo Lonati “tenente della Milizia mobile fino dal 1859 la sua gioventù dedicava sui campi tutti pugnando dell'Italica redenzione”; Carlo Contini, che “giovanetto sacrò la vita al patrio riscatto fra le schiere dei volontari”.

Personaggio storicamente rilevante, in quanto, mentre era farmacista a Reggio Emilia, prese parte ai moti carbonari del 1821 e 1831 nel Ducato di Modena subendo per questo un duro processo, fu Pietro Zanibelli, che morì a 60 anni il 28 dicembre 1847 ed così è ricordato sull'epigrafe: “Ardente di patria carità, nei tremendi anni 1821 e 1831 non dubitò esporsi a mortali perigli, congiurando coi generosi che volevano tolta di servitù l'Italia. Falliti i magnanimi tentativi, adoperossi al bene della città nativa e per lungo tempo assessore municipale mostrò senno, integrità, solerzia esemplari”.

Alcune lapidi sono dedicate a uomini che muoiono piuttosto anziani, ma che ci tengono ancora, a distanza di tanti anni, a ricordare con orgoglio d'essere stati in gioventù soldati di Napoleone: e non si tratta di un caso isolato, ma di un sentimento diffuso, storicamente interessante . Così Pasquale Vitaliani “laborioso, valentissimo ragioniere, ingenuo, sensibile, giocondo, già fra i militi napoleonici strenuo capitano d'artiglieria”; Lorenzo Maffei “velite coraggioso nelle guerre del primo Impero...meritò la medaglia imperiale”; Carlo Casazza fu “decorato della medaglia di S. Elena per le estreme battaglie napoleoniche strenuamente combattute”; anche Maurizio Perelli venne “decorato dal prigioniero di S. Elena”.

Tra le numerose epigrafi poste sui sepolcri di ecclesiastici mi limito a citare quelle dei tre abati mitrati e parroci che ressero per buona parte del secolo la chiesa abbaziale di Santo Stefano.
Il cremonese Giovanni Miglioli, abate dal 1831, “per specchiati costumi, profonda dottrina in religione, zelo indefesso, carità operosa a pochi secondo, nel lutto universale morì li 8 ottobre 1837, legando alla Chiesa e ai Poveri tutto il suo”. Gli succede monsignor Giuseppe Marenghi, un sacerdote di forte tempra in campo religioso, intellettuale e civile: di “robusta mente e profondi studi” fu professore nel Seminario di Cremona “fra i più eletti cultori delle filosofiche e teologiche discipline”; in Casalmaggiore “fu amato per efficace carità evangelica e per lo splendore della dottrina...Di cittadino, di sacerdote, di parente armonizzò i doveri e patria religione e famiglia in un affetto confuse. Meritate onorificenze ebbe dalla nazione. Nell'ottantunesimo anno di sua vita moriva il 19 luglio 1866 confortato dalla coscienza di una missione compiuta”. Il successore Michele Bignami (1867-1888) “Cavaliere degli Ordini di S. Stefano d'Ungheria (onorificenza austriaca), dei S.S. Maurizio e Lazzaro (sabauda) e della Corona d'Italia (dell'Italia unita) passò facendo bene. Pietà e Scienza, Religione e Patria gli accendevano l'animo...Il tempio decorato, i dipinti d'egregi maestri con molta cura raccolti lo mostrano amante del Bello e del Vero”.

Dovrei ora concludere ricordando le esequie dei più illustri cittadini della Casalmaggiore ottocentesca, ma il tipografo lamenta gli spazi ormai esauriti e quindi possiamo per ora porre termine qui a questa domestica antologia di Spoon River, che ha fatto rivivere personaggi e temi che sono (o almeno dovrebbero essere) patrimonio della nostra memoria storica.

Archivio Storico Comunale di Casalmaggiore, parte moderna, b. 48
Mobirise
Pubblicato su "Casalmaggiore", bimestrale a cura
dell'Associazione Pro Loco di Casalmaggiore
Ottobre 2012

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